domenica 26 maggio 2013

PALAGIANELLO E IL BRIGANTAGGIO



Vito Vincenzo Di Turi
Consulente Storico-Giuridico in materia di Usi Civici
 e Terre Civiche

Vito Vincenzo Di Turi




Per la presentazione del libro

Palagianello e il brigantaggio
Le vicende nei Comuni del Comprensorio
Terre delle Gravine
di
Giovanni D’Auria, Carmelo Luprano
ed Angelo Sponsale





Palagianello, Giovedi 26 settembre 2002


Aula Consiliare














Autorità, Signore e Signori,
era indecoroso sentire, anche dai nostri conterranei, che il nostro era un Comune senza storia, per lo meno quella scritta.
Questo vuoto nella storiografia di Palagianello va ora man mano colmandosi grazie alle ricerche di alcuni nostri concittadini ed a contributi di altri, come il prof. Orazio Santoro. Suo è Palagianello prima e dopo la rivoluzione napoletana del 1799.
Gli amici Giovanni D’Auria, Carmelo Luprano e Lillino Sponsale, con la pubblicazione dal titolo:

PALAGIANELLO E IL BRIGANTAGGIO

 

hanno aggiunto un nuovo tassello per la conoscenza della storia di Palagianello 

Grazie alle loro ricerche si è finalmente sollevato il sipario su una parte della nostra storia:
il brigantaggio
che per Palagianello si configura con quella tutta meridionale; poiché identiche sono le vicende che scatenarono il fenomeno.
Nella presentazione il prof. Mario Spagnoletti ha posto il dito sulla piaga e sintetizza i motivi ispiratori del fenomeno, mentre gli autori, fra l’altro, hanno fatto riferimento alla questione della ripartizione delle terre demaniali, oggetto, sin da epoca remota, di massicce usurpazioni da parte dei c.d. galantuomini che, in quanto a comportamenti, nulla avevano da invidiare agli ex baroni.
Della probabile connessione fra questione demaniale e fenomeno del brigantaggio in Palagianello ne avevo sentito parlare sin da piccolo, poiché Serafina Trisolini, sorella del c.d. brigante Pasquale Trisolini, è la mia bisnonna, ovverosia la madre di mia nonna materna, dalla quale ho avuto occasione di ascoltare le vicende intorno a questo avvenimento, molte delle quali hanno trovato riscontro nei documenti consultati, con certosina pazienza, dagli autori del volume che questa sera si presenta.
Sia pure nel breve tempo che la circostanza consente, dirò sommariamente delle nostre vicende demaniali, significandovi che il grado di credibilità è garantito da un vistoso apparato di documenti chiari ed inoppugnabili e da un’analisi dei fatti condotta, secondo il detto di Tacito, sine ira et sine studio, in altre parole senza prevenzione e senza partigianeria.
Con la legge eversiva della feudalità le proprietà dei baroni furono assoggettate al diritto comune e ai cittadini fu riconosciuto il secolare diritto degli usi civici sulle proprietà feudali.
Scopo di quella legge fu, fra l’altro, quello di convertire le terre feudali in proprietà allodiali, distaccandone una parte in favore delle comunità, sulla quale i cittadini esercitavano il secolare diritto di uso civico, con l’intenzione di attuare il principio che mirava al miglioramento agricolo ed economico degli abitanti, disponendone la suddivisione in favore della collettività.
Il Racioppi al proposito annota:
fu ordinato distaccarsi dalla proprietà feudale una parte delle terre, e questa parte venne attribuita al Comune non come patrimonio, ma come retaggio dei minori cittadini, a cui il Comune doveva trasmetterla. Queste porzioni distaccate dalle terre feudali in compenso degli usi civici, costituirono i beni demaniali del Comune, eredità futura dei nullatenenti…
L’operazione di suddivisione del demanio prese il nome di quotizzazione.
Per quanto riguarda Palagianello, ben tredici anni dopo la divisione in massa, ovverosia nel 1824, parte di queste terre furono quotizzate ed assegnate a 548 cittadini. 
 

Pianta della quotizzazione del demanio "Titolato" - anno 1824

 Con la quotizzazione, che nell’intenzione del legislatore doveva apportare un miglioramento agricolo ed economico degli abitanti, la realtà sociale dei cittadini di Palagianello non si trasformò sostanzialmente: la libera proprietà  che doveva costituirsi era già sull’orlo del fallimento per difetto di alcuni provvedimenti che regolavano la gestione dei demani civici.
Ciò produsse un grave squilibrio economico che, per alcuni - come quell’Angelo Ventrelli capo della Guardia Nazionale – fu fonte di ricchezza.
Appena sei anni dopo la quotizzazione -  con la quale, molto probabilmente, si volle coprire precedenti usurpazioni del demanio  - il sessanta per cento del demanio Titolato era in possesso di tre persone, mentre la quasi totalità di quello denominato Conocchiella era passato nelle mani di cinque persone, imparentate fra loro attraverso una rete incrociata di matrimoni -  vanificando la legge sulla divisione dei demani, che nella mente del legislatore bonapartista era di formare una classe di piccoli proprietari affezionati alla terra.
Si assisté, infatti, allo stravolgimento dello spirito e della finalità della legge.
La mancanza di incentivi e di sgravi fiscali, almeno fino a quando le terre quotizzate non avessero dato un minimo di reddito tale da permettere, specie per i più miseri, il pagamento del canone infisso sulla quota, dettero l’avvio alle manovre intese a spossessare i quotisti più indifesi, quasi tutti.
In questo contesto si verificò in maniera virulenta uno strano fenomeno: quello delle quote abbandonate.
Moltissime quote, infatti, risultavano stranamente incolte ed abbandonate ed il “Casciere” comunale fu costretto a registrare il mancato pagamento del canone che ogni originario assegnatario era tenuto a corrispondere al Comune.
In questa operazione grande peso ebbe  il Sindaco di Palagiano (è noto che dal 1806 al 1907 Palagianello è stato prima Comune aggregato e poi frazione di Palagiano) il quale, con un comportamento certamente non conforme alla legge,  assegnava graziosamente ed a suo piacimento le quote abbandonate a cittadini di Palagiano spesso possidenti ed amministratori, stravolgendo lo spirito della legge che aveva lo scopo di affrancare dall’indigenza, dopo secoli di vessazioni feudali, le misere classi rurali e non già di impinguare ulteriormente i possedimenti dei ricchi proprietari.
Con questi meccanismi perversi venivano concesse ai maggiorenti le terre pubbliche di Palagianello e questo avvenne sia in danno dei primi assegnatari, non sappiamo fino a che punto colpevoli di abbandono, e sia a discapito di altri cittadini di Palagianello che sarebbero potuto  essere favoriti dal sorteggio nella quotizzazione, poiché i terreni cosiddetti abbandonati dovevano ritornare alla massa demaniale per essere riassegnati ad altri cittadini.
Questo significò il passaggio delle quote demaniali nelle mani di pochi e la trasformazione dei quotisti da contadini poveri a “bracciali”, come si diceva allora, per la qual cosa le speranze e lo spirito innovatore che doveva apportare l’abolizione del feudalesimo non trovarono riscontro in quella realtà sociale, giacché l’idea di dare “la terra a chi la lavora” -  voluta e realizzata in parte nel periodo 1806-1825 - agli inizi della seconda metà dell’ottocento a Palagianello era fallita
Proprio in questo periodo si ebbe il rafforzamento del ceto dei cosiddetti “civili” e dei possidenti, in altri termini di quella piccola borghesia rurale che era costituita dall’ex fattore di campo, dall’ex massaro, dall’ex fittavolo poi possessore dei terreni civici per graziosa determinazione del Sindaco, peraltro espressione di quel ceto, le cui famiglie, sempre le stesse, si fecero strada sia nell’ambito delle attività economiche sia in quello delle cariche pubbliche, creando quella concentrazione monopolistica che andava sotto il nome di nuovo feudalesimo.
Qui questa nuova forma di potere, si innalzò a dignità di “categoria”, a fatto eterno e ricorrente, nel quale, da sempre si celebra la facile vittoria del prepotente sul debole.
In questa situazione, dopo la caduta della dinastia borbonica ed il Plebiscito del 1860 per l’Unità d’Italia, si scatenò anche in Palagianello il fenomeno del brigantaggio che certamente ebbe origini di natura politica ed economica, incrementato soprattutto dalla delusione che le classi sottoposte ebbero dal governo Unitario il quale aveva promesso benessere, riforma agraria ed emancipazione sociale ed economica.
Non fu così.
Le favolose promesse non furono mantenute.
Il governo unitario non capì, o non volle capire il fenomeno, creando fra cittadini un clima di sfiducia che è sintetizzato nella frase che Domenico Pugliese il 3 ottobre 1860 - discorrendo con Vitantonio e Francesco Aloisio nella bettola gestita da Paolo Trisolini, padre del “brigante” Pasquale Trisolini - pronunciò:

Vassi a far fottere Vittorio Emanuele
 e chi lo ha fatto sedere alla sedia

Su segnalazione  del Capo Sezione della Guardia Nazionale, Angelo Ventrelli, il Regio Giudicato del Circondario di Mottola, con sentenza del 21 gennaio 1861, condannò il Pugliese a sette mesi di prigionia ed al pagamento delle spese di giudizio per oltraggio al Re Vittorio Emanuele e irrisione del plebiscito.
Per aver or ora ripetuto quella frase, conto di non incorrere nei rigori della legge per lesa maestà.
Meglio - parafrasando il titolo di un libro di Marcello D’Orta in circolazione qualche anno addietro –
Io,  speriamo che me la cavo,
Grazie a voi tutti.
 Vito Vincenzo Di Turi

Atto di morte di Domenico Nuzzi